La Canapa è una pianta che ha origine nell’Asia Centrale, utilizzata sin dall’antichità per le sue proprietà terapeutiche e ludiche soprattutto dai popoli di India, Cina, Medio Oriente e Asia Sud-Orientale.

A partire dagli anni ’50 c’è stata una grande produzione di cannabis in Italia, solo che verso la fine degli anni ’30 partì dagli Stati Uniti una campagna di demonizzazione e con il Marijuana Tax Act, venne proibito il suo utilizzo, con influenze catastrofiche anche nel resto del mondo, arrivando a far quasi scomparire le sue coltivazioni.

Quali sono le proprietà e benefici

Le proprietà dei semi di canapa sono dovute soprattutto all’alta presenza degli acidi polinsaturi che li rendono preziosi per combattere e prevenire diversi disturbi tra i quali:

  • arteriosclerosi
  • disturbi cardiovascolari
  • colesterolo
  • artrosi
  • malattie del sistema respiratorio (asma, sinusite, tracheite)
  • eczemi
  • acne

I semi di canapa sono davvero una medicina naturale e un’assunzione costante può contribuire a mantenere in buona salute diverse ghiandole e muscoli e rinforzare il sistema nervoso.

I prodotti alla Canapa più utilizzati

Tra i prodotti alla Canapa più utilizzati c’è l’Olio di canapa.

L’olio di canapa viene venduto prevalentemente nei negozi di alimentazione biologica, va tenuto lontano da fonti di calore e luminose e una volta aperto si conserva in frigorifero.

L’olio ricavato dai semi di canapa è un prodotto naturale dalle doti davvero straordinarie.

La molteplicità dei suoi benefici è dovuta in particolare alla presenza di acidi grassi essenziali e principi attivi che lo rendono un rimedio naturale antiossidante, antinfiammatorio e immunomodulante.

Un apporto quotidiano di olio di semi di canapa nella misura di 1 cucchiaino da tè al giorno, a livello preventivo, e da 1-3 cucchiai da tavola da distribuire nella giornata hanno dimostrato risultati eccellenti in caso di disturbi del sistema osteoarticolare e muscolare.

Usare periodicamente l’olio di canapa contribuisce all’abbassamento del colesterolo e dei trigliceridi nel sangue.

Comporta, inoltre, una conseguente riduzione del rischio di trombosi, ipertensione, vasculopatie e aterosclerosi e le malattie cardiovascolari in genere, perché mantiene elastiche le pareti dei vasi sanguigni.

L’olio di canapa è inoltre usato per la cura dell’asma, sinusite, tracheite e diverse affezioni respiratorie.

Può inoltre migliorare le condizioni della cute affetta da acne.

Oltre che all’assunzione per bocca, si applica anche direttamente sulla zona da trattare per ridurre i pruriti e le infiammazioni.

Efficace anche per la cura dei funghi alle unghie (onicomicosi) patologie a carico del tratto gastro-intestinale e del fegato.

Aiuta in casi di infezione cronica della vescica, di colite ulcerativa, nel trattamento dell’intestino irritabile e negli squilibri del sistema ormonale femminile.

Le cisti ovariche, dolori mestruali, fibrocisti mammarie, è utilissimo per la sindrome premestruale e nella menopausa, perché combatte l’osteoporosi, i problemi di natura neurologica e psichica.

Rinforza il sistema nervoso, per questa ragione viene impiegato per curare:

  • problemi di apprendimento
  • deficit della memoria
  • difficoltà di concentrazione e di attenzione
  • depressione cronica
  • depressione post-parto
  • disturbi del linguaggio e caratteriali
  • autismo
  • nevrosi

Rimanere nella casa dei genitori è razionale e giusto.

Il modello della famiglia patriarcale si è da poco dissolto in Italia. Ma nella percezione mentale che se ne ha pare distante secoli, un lontano puntino che si perde nei tempi oscuri del medioevo. Il diktat è l’indipendenza: a 18 anni fuori di casa! Vita autonoma, moderna, affrontando le difficoltà di petto perché solo con le responsabilità si cresce e si diventa veri uomini.

Il saper pagare le bollette, arredare una casa, curarne l’esterno, prepararsi i pasti e mangiarseli da solo rendono un individuo migliore di un altro, sono skills potenti, riti di iniziazione, marcatori di considerazione sociale.

Spesso l’indipendenza è forzata da cause fondate, come lo studio fuori sede, il lavoro trovato in un’altra città, la convivenza. Su questo nulla da dire, il cambiar casa diventa un malus che va  pesato sulla bilancia costi/benefici delle opportunità che si presentano nella vita.

Ma se non si ha un lavoro, o si lavora nella stessa città dei genitori, non si ha intenzione di convivere, qual è il senso logico di ricercare l’indipendenza a ogni costo? Questa necessità imposta, prettamente dovuta ad una pressione sociale esterna, come si giustifica? Perché affrontare un mare di difficoltà solamente per sentirsi riconosciuti come “maturi”?

Ventenni, trentenni, quarantenni si vergognano per il fatto di vivere ancora con i propri genitori. Quando sono costretti a rivelare questa ignobile verità vengono accolti con un sorrisino ironico e snobbati come handicappati sociali. Un’opera di discriminazione e di bullismo che segue gli stessi meccanismi di emarginazione di chi non segue le mode o non si adegua agli atteggiamenti del branco.

Una analisi dei pro e dei contro condotta in modo razionale evidenzia come non ci sia alcun vantaggio economico o di benessere nell’abbandono del nido, cioè che per dare di sé un’immagine positiva al cospetto della collettività si spendono inutilmente risorse materiali ed emotive. Un bisogno indotto e irragionevole di riconoscimento sociale fa deviare dalla linea retta dettata anche da un limitato senso logico.

Si può parlare dell’ennesimo velo distorcente posto dalla società moderna sugli occhi dell’uomo contemporaneo, che gli impedisce di avere una corretta visione di come stanno le cose realmente.

I vantaggi del vivere in casa dei genitori sono infatti lapalissiani, evidenti anche alle menti più semplici, se non fossero condizionate da una malevole propaganda:

  1. I costi sono ridottissimi: non si paga un mutuo e nemmeno un affitto.  I pochi soldi che entrano si possono spendere tutti per esigenze personali, senza dover fare la figura del barbone rifiutando inviti a cene, uscite, calcetti, aperitivi, serate in discoteca, vacanze.
  2. Le bollette sono a carico del capo famiglia e non si devono fare file per pagarle.
  3. Ci si può permettere un televisore grande e spesso l’abbonamento a Sky è incluso nel pacchetto famigliare
  4. Non si spendono soldi per la spesa, non si fa la spesa, ma al massimo si perde un minimo di tempo a fare l’elenco di quello che serve.
  5. Non bisogna pulire in casa o assumere qualcuno che lo faccia.
  6. C’è qualcuno che lava i panni, e soprattutto che li stira. Niente errori con i colori, nessun timore a dover andare in giro con i vestiti stropicciati con la speranza che si stirino da soli sul proprio corpo.
  7. Guadagno netto di tempo nel non doversi preparare da mangiare.
  8. Guadagno in salute grazie a pasti preparati a dovere e con un sapore accettabile, diversi dallo junk food o dai cibi maltrattati e tristi che la solitudine e la mancanza di voglia inducono ad ingurgitare quando si è da soli.
  9. Lenzuola che magicamente cambiano da sole al variare della stagione.
  10. Una cura e una manutenzione della casa anche nei più piccoli e minuziosi dettagli che sarebbe impossibile in una vita autonoma.

Sono 10 punti stesi velocemente, ma non sarebbe difficile trovarne altri. Ora: come si può pensare che l’obbligarsi ad una non necessaria (nel senso di non indotta da circostanze materiali esterne) indipendenza ed imparare ad espletare queste fastidiose e banali incombenze aiuti la crescita di un individuo e lo renda migliore?

Non si può negare che il vivere da soli abbia i propri vantaggi: autonomia rispetto alle regole imposte da chi in famiglia è gerarchicamente superiore, libertà di gestire orari e conduzione della vita domestica, possibilità di ospitare altre persone. Ma questi vantaggi, in confronto a quelli offerti da una vita in famiglia, giustificano una scelta così radicale?

Siamo nati per soffrire, ma una condotta di vita saggia dovrebbe cercare di eliminare quanto più possibile i disagi. Rimanete in casa!

la battaglia tra l'uomo ed il proprio fisico

Che il corpo umano sia una macchina imperfetta, piena di errori, obsoleta e degna di scomparire dalla faccia della terra è una realtà nota e ormai universalmente accettata.

Sono rari i momenti in cui operi decentemente, sia cioè in grado di produrre una performance fisica o intellettuale di buon livello senza provocare affaticamento, stanchezza, noia, imprecazioni, sensazione di aver realizzato un’impresa irripetibile.

Già nel proprio funzionamento, in sé, la fisiologia umana è soggetta ad errori, miseri fallimenti, malattie metaboliche inutili. Chiari segni che l’agglomerato umano si ostina ad ignorare permanendo in un parossistico attaccamento alla vita, condito dall’illusione autoindotta che sia irripetibile e meravigliosa. Tuttora mancano basi plausibili per questa affermazione, ma si sa che le credenze e le superstizioni sono dure a morire.

Se passiamo al livello più complesso delle interazioni con l’ambiente circostante il disastro è completo e totale. Mantenere in salute il proprio fisico è un’impresa disperata, oggettivamente impossibile. Ogni azione, ogni contatto con altri oggetti o organismi, ogni assunzione all’interno del proprio fisico di sostanze esogene è deleterio e dannoso. Bisognerebbe rimanere fermi il più possibile, totalmente immobili; ma si da il caso che anche questo faccia male.

La tragedia della condizione umana è esplicitata in termini ancora più lampanti ed autoevidenti nel momento in cui ci coglie un’illuminazione banale ma assai rivelatrice: più una cosa è piacevole ed appagante, peggiore è il suo impatto sulla nostra salute.

Il paradosso è esplicito: brevi momenti di gioia e felicità vengono pagati a caro prezzo in termini di salute e benessere sul breve e lungo periodo; mentre per mantenere una condizione omeostatica quasi decente, occorre soffrire in termini di noia, esercizio fisico, rinunce ascetiche ai pochissimi piaceri di una miserabile vita. Per riassumere il concetto in una frase:

Per non soffrire bisogna soffrire.

È un loop logico, non se ne può uscire, solo maledire ripetutamente ed in modo sclerotizzante la propria condizione.

Uno degli esempi più semplici ma più chiari di questo dramma che permea l’esistenza dell’uomo sulla terra è il cibo ed il rapporto con esso: una maledizione del demonio.

L’alimentazione ha un impatto devastante sul funzionamento del nostro corpo. Mangiare sano è la migliore medicina, mantiene in salute, migliora le performance, previene le malattie e gli scompensi metabolici che l’invecchiamento si porta dietro. Fantastico, ma mangiare sano fa schifo. Non c’è sapore, non c’è gioia, l’aspetto dei piatti è deprimente.

Il cibo è una delle poche gioie di questa tediosa esistenza, ma se è buono fa male. È una gratificazione, un premio che ci si concede, ma che premio è un petto di pollo scondito, un’insalata, un qualcosa di opaco cotto nel vapore? La malinconia passa dall’alimento all’anima, il grigiore permea la giornata del tristo salutista.

Una pantagruelica tavolata di cibi ricchi, gonfi di uova, affogati nell’unto, cosparsi di salse, fritti, colorati, gioiosi; colmi di zucchero, rivestiti di cioccolato e di croccanti biscotti al burro. Tutto questo è devastante, un’estasi di pochi minuti, se va bene di un’ora, ha effetti micidiali sui giorni, i mesi, gli anni successivi.

Se si mangia tanto in un pasto la pesantezza accompagna le ore successive: è impossibile ragionare e lavorare con un minimo di lucidità perché travolti dal Tir del sonno postprandiale; ogni attività fisica diventa uno sforzo titanico accompagnato da fiatone, pesantezza, rigurgiti di un cibo che al secondo e terzo passaggio nel cavo orale non è mai piacevole come la prima volta. Se è la cena ad essere abbondante a venire disturbato è il sonno, a detrimento di tutta la giornata successiva.

Inoltre ogni cosa buona è un’arma di distruzione di massa: grano, zucchero, latte, pizza cotta nel petrolio, prodotti della combustione delle grigliate, l’olio di frittura, sono alimenti addirittura cancerogeni che consumati sul lungo periodo sballano i valori del sangue e come tarli corrodono in uno stillicidio continuo e inarrestabile gli organi interni.

Più una cosa piace e più è pericolosa. Numerose sono le insidie, sotto forma di batteri ed agenti patogeni, che si nascondono nelle uova, nella carne cotta male, nel pesce crudo. Per non parlare delle allergie e delle intolleranze: quale dio può ricoprire chi mangia una cosa di suo gradimento di pustole, deformarlo per il gonfiore, obbligarlo a trascorrere un cordiale dopocena al bagno o peggio ancora al pronto soccorso?

Visto che l’uomo non sa rinunciare a sé stesso ma persevera nella sua alogica ed irrazionale conservazione e propagazione di specie, nascono da tale situazione delle derive che esprimono a pieno la decadenza della contemporaneità. Non so descrivere in altro modo stili di vita che ad uno sguardo alieno risultano incomprensibili e ridicoli: sostituti vegetali della carne e del latte, rinuncia alle carni rosse, diete sane e bilanciate prive di dolci, fino a degenerazioni religiose come il veganismo.

Un hardware ben progettato consentirebbe di soddisfare il proprio piacere in modo incessante e senza ripercussioni; uno delicatissimo, che richiede un’attenta manutenzione, che tiranneggia la volontà del suo proprietario obbligandolo a rinunce e all’incertezza delle reazioni nel proprio impatto con ciò che vi viene introdotto, è una palese truffa che va corretta al più presto.

Bisogna rompere le catene e ribellarsi a questa schiavitù. Intraprendere una battaglia contro il proprio corpo che può e deve terminare solamente con l’annientamento totale di uno dei due contendenti. Per questi motivi ho deciso di cambiare la mia vita ed assumere sulle mie spalle il peso dell’ingrato ruolo di avanguardia. Mangerò quello che voglio quando voglio, senza alcuna pietà per il mio fisico. Vedremo chi avrà la meglio, sicuramente l’odio tra di noi non è mai stato a livelli così alti. Indietro non si può tornare.

Diritto degli uomini all'inettitudine

Emma Watson, in un discorso alle Nazioni Unite in occasione del lancio della campagna “HeForShe”, ha affermato: “Non si parla spesso degli stereotipi di genere che imprigionano gli uomini ma so che esistono e quando se ne libereranno, come naturale conseguenza cambieranno le cose per le donne. Se gli uomini non dovranno essere aggressivi per essere accettati, le donne non si sentiranno costrette ad essere remissive. Se gli uomini non dovranno esercitare il controllo, le donne non dovranno essere controllate. Uomini e donne dovrebbero entrambi sentirsi liberi di essere sensibili. Entrambi dovrebbero sentirsi liberi di essere forti”.

Quali sono questi stereotipi che imprigionano l’uomo da secoli, e lo condizionano nella propria attività al di là di quello che è il suo sentire e di quelli che sono i suoi veri desideri?

  1. L’obbligo della forza: ogni volta che c’è qualcosa di pesante da spostare, o trasportare, come scatoloni, confezioni, mobili, buste della spesa, rifiuti ingombranti, tocca all’uomo. Si suppone che essendo una attività di bruta manovalanza dove conta solo la superiore capacità fisica, sia il maschio a dover faticare. Ma ormai nessuno passa le giornate a cacciare nelle foreste, ed il rischio di perdere la propria battaglia contro il peso dell’oggetto è alto. Sotto questo punto di vista la parità dei sessi è più vicina di quanto si pensi.
  2. L’obbligo della cortesia cavalleresca: dare precedenza alla volontà della controparte femminile  è visto come un obbligo sociale inculcato fin dalla nascita. Offrirsi di fare qualcosa per o al posto di una donna, prestarsi ad aiutarla, rispettare la sua volontà quando si guarda qualcosa in televisione, si ascolta qualcosa alla radio, si programmano la giornata, le vacanze, le uscite, le cene; cedere il proprio posto o il proprio cibo sono azioni considerate naturali ma che riversano una insana luce di inferiorità sulla “femmina”. Per una reale parità dei sessi e per non indurre il maschio a ricercare disperatamente la solitudine o la compagnia dei soli amici maschi questa cortesia andrebbe abolita a favore di un rapporto schietto e sincero.
  3. L’obbligo di sapere come funzionano le cose. Dall’uomo si pretende che sia un appassionato di tecnica, che conosca tutto di alcuni argomenti come le automobili, gli elettrodomestici, l’elettricità, l’idraulica, e che sappia riparare gli oggetti che si rompono. Ma la specializzazione del mondo contemporaneo ha fatto sì che ci siano professionisti capaci, nel proprio settore di competenza, di aggiustare i danni, e che le persone lavorino per riuscire a pagarli, senza dover intervenire direttamente. Un uomo deve poter non sapere come è fatto e come funziona un motore, cosa sono i cavalli e la cilindrata, come si cambia una gomma, come si cambia una lampadina, come si aggiusta il rubinetto, o lo scarico del lavandino che non tira più, come sistemare il trasformatore o cambiare la spina di un apparecchio elettrico. Deve essere un diritto acquisito l’orrore per lo sporco di olio e grasso, per le ferramenta e per i megastore di bricolage.
  4. L’obbligo di essere “l’uomo di casa”: tenere in ordine e in salute l’infrastruttura materiale, l’orto ed il giardino. Non tutti sono entusiasti di devastarsi il fisico nel cementare, costruire con i mattoni, posare le piastrelle; o zappare, vangare,seminare, raccogliere i frutti della terra. Né di tagliare l’erba, rastrellare le foglie, potare le piante, innaffiare. Per alcuni questo è un incubo, peggiore forse di andare a teatro o vedere un balletto, quasi paragonabile a fare shopping.
  5. L’obbligo dell’aggressività. Essere maschi alfa e proteggere le donne del gruppo dalle avances e dalle offese degli elementi estranei. Fare a botte, mostrare i muscoli, aggredire verbalmente, guardare male, mettere a repentaglio la propria incolumità ed integrità fisica per il senso dell’onore fa parte di una mentalità superata; si può concedere ad un uomo nel 2000 di essere timido e nascondersi o chinare il capo di fronte alle offese ed all’aggressione di un estraneo, soprattutto se non rivolte direttamente al soggetto interessato.
  6. L’obbligo della munificenza: offrire da bere e da mangiare agli individui femminili in occasione di uscite comuni, essere prodighi di regali in occasioni di incontri o appuntamenti. Tirare fuori i soldi dalle tasche fa sempre male, un dolore psichico e fisico che può debilitare per diversi giorni; la consapevolezza della parità tra i sessi e della divisione del conto in parti uguali regala grande serenità ed aumenta la voglia di condivisione dei momenti mondani. Addirittura la gratificazione di essere spesati di tutto da una donna può portare ad un affetto illimitato ed a una riconoscenza imperitura verso la “femmina”.

Mi trovo quindi a rivendicare la parità tra i sessi, ma soprattutto il diritto dell’uomo all’inettitudine totale, sia sociale che pratica. Lo faccio in questo modesto blog, con la speranza di poter ribadire anche io questi concetti, un giorno, di fronte all’assemblea delle Nazioni Unite.

L'uomo povero può essere il nuovo animale domestico.

La società si sta polarizzando, è un dato di fatto. Una percentuale sempre minore di persone detiene una percentuale sempre maggiore della ricchezza, sia a livello nazionale che globale. Aumenta la forbice tra ricchi e poveri, tra chi non sa come spendere i propri soldi e chi non ne ha quasi nemmeno per i bisogni fondamentali.

Si assiste per questo motivo a contrasti notevoli e stridenti: persone che fanno la fila alla mensa per i poveri, perché non sanno come procurarsi da mangiare; una classe media distrutta che vede andare in rovina il proprio tenore di vita ed è costretta nella vergogna a rinunce sui consumi; una classe elevata che arriva ad estremi parossistici di affetto verso il proprio animale domestico.

Esistono ristoranti, hotel, parrucchieri, negozi di vestiti per i cani; i gatti vengono viziati e coccolati con giochi, mobili, cibo raffinato, scatolette e croccantini costosissimi. Per loro si ha l’attenzione che si darebbe non ai figli, ma ai propri nipoti.

Intanto il 99% povero si arrabatta in una melma informe per cercare di sopravvivere, senza lavoro, senza motivazioni, senza voglia, guardando da lontano un mondo dorato ed irraggiungibile.

Ho riflettuto a lungo su questa nuova condizione umana, sule prospettive che mi si pongono davanti, sul da farsi per riuscire a scamparla in questa spietata jungla.

E ho notato che ho tutte le caratteristiche per poter fare l’animale domestico. Devo solo riuscire a propormi, e trovare qualcuno che voglia adottarmi.

Non so fare nulla, quindi in casa sarei completamente inutile; potrebbero insegnarmi a fare lavoretti e faccende, ma non voglio imparare. Non credo abbiate mai visto un cane od un gatto che lavano, stirano, cucinano, dipingono la casa, aggiustano i piccoli guasti idraulici, cambiano le lampadine.

Starei in casa, una presenza fissa e costante, ma non ingombrante. Darei il vantaggio di scoraggiare eventuali ladri, rispondere al telefono ed ai venditori, dare al padrone di casa la certezza di non essere da solo quando torna dal lavoro. Non sarei invadente, non farei feste come un cane, me ne starei per i fatti miei come un gatto, e mi farei vedere solamente se cercato, o se avessi bisogno di qualcosa (farmi lavare una maglia, farmi comprare qualcosa che mi serve, farmi dare un po’ di soldi per esigenze varie).

Il padrone potrebbe parlarmi se ne ha voglia, di quello che vuole (chiaramente ho l’obbligo di cercare di essere preparato sugli argomenti di suo interesse), o farsi bastare la mia muta compagnia; oppure utilizzarmi come intrattenimento, una specie di giullare medievale, pronto a far ridere con gag e battute.

Non avrei grandi esigenze, mi basta mangiare 3 volte al giorno, avere un televisore grande sul quale vedere la tv satellitare, un po’ di soldi per comprare libri, portatile, smartphone. Non so nemmeno vestirmi da solo, quindi sarei completamente succube del gusto estetico di chi si prende cura di me. Accetto volentieri cibi raffinati ed hotel, posso entrare in tutti i locali, non sporco particolarmente e sono disordinato sì, ma ritrovo sempre tutto.

Sono autonomo, posso portarmi da solo dal veterinario, o dal medico, so guidare e posso fare da autista; inoltre posso fare la spesa, scaldare vivande (con l’aiuto di un forno), andare in posta ed in banca.

In un mondo giusto e socialdemocratico avrei una badante, ma in questo medioevo contemporaneo occorre diventare una via di mezzo tra un cicisbeo ed un giullare, per potere sopravvivere.

Posso dare tanto (affetto no, fatico a trovare qualcosa di buono da dare…) (tanta presenza?), in cambio chiedo solo di essere mantenuto.

L’essere umano è fatto per soffrire. E si compiace e gode della propria sofferenza. Riesce a trasformarla in una occasione di festa, per questo è ammirevole ma assai difficile da comprendere.

Questa sua attitudine si manifesta appieno nelle sagre, o fiere, o feste pubbliche. Manifestazioni consacrate al’ammucchiata dedita allo svago gastronomico o merceologico.

L’intero avvenimento si configura dall’inizio alla fine come un girone infernale, ripetitivo, sempre uguale a se stesso, un’unione mistica in cui annullarsi, condividendo un disagio collettivo, che credere sollazzo rientra nella costituzione della pena.

L’impatto è devastante, ma affrontato con gioia per la promessa di gratificazioni future. Il parcheggio, cioè, è il primo grande scoglio che dovrebbe far desistere le persone assennate e confermarle nell’idea che tornare alla solitudine domestica sarebbe la scelta migliore. Colonne di vetture che procedono a passo d’uomo, clacson e offese, un frastuono appunto infernale, manovre azzardate, improbabili incroci che mettono a rischio carrozzerie e specchietti. Rabbia, adrenalina, prepotenza e menefreghismo portano a posizionare le macchine in modo creativo ed arrogante nei posti più improbabili, con la speranza che non ci siano conseguenze, alimentata dal clima di sospensione della realtà.

L’ingresso nell’arena (parco, piazza, strada di paesello che sia) cancella le promesse e mostra in modo crudo la dura realtà: non ne vale decisamente la pena. Ma le persone sembrano felici, c’è allegria, è palpabile lo sforzo di fare festa e di estraniarsi dalla quotidianità. Le bancarelle sono in circolo, le file sono ordinate, i tavoli sono già tutti pieni, l’odore dei cibi offerti si mischia a dovere. Ma bisogna pur far passare la giornata, o serata.

Il primo passo è mangiare. In un mondo ideale, quello dei sogni e delle speranze riguardo al futuro, dei vagheggiamenti romantici che si fanno mentre ci si dirige al luogo di festa, in quel mondo appunto ci si siede con gli amici in un tavolo isolato, si ordina dopo una breve attesa, si pasteggia con pietanze sì grezze, ma caratterizzate dai gusti rozzi e sani che si sono perduti. Purtroppo le tavolate sono enormi, promiscue, e non è facile decidere se l’impossibilità di sedersi per il tutto esaurito sia una fortuna o meno. Nemmeno mangiare in piedi è fattibile, la fila al banco delle ordinazioni è degna di un grande concerto, e la logica suggerisce che sia impossibile da smaltire completamente entro la durata della festa.

Come ripiegare? Street Food. Ci sono numerose alternative, tutte deludenti rispetto alle aspettative iniziali. Sorpresa, la fila per prendere una piadina, un panino, una pannocchia, è la stessa del ristorante. Ti rendi conto che c’è qualcosa di magico quando decidi di aspettare per ore un qualcosa che potresti prepararti in casa, meglio, in due minuti, e che per ottenerlo dovrai pagare una cifra spropositata. Il torpedone si trasforma in occasione di socializzazione e di divertimento, che altro non è che condivisione della sofferenza.Ti chiedevi come avresti fatto trascorrere alcune ore in un posto di pochi metri quadri, ora lo sai, ma non avresti mai immaginato che sarebbe stato come in posta.

Finita la prima quest, la prossima tappa è prendere da bere. Per fortuna la copiosa presenza di stand garantisce un rapido approvvigionamento ed una discreta varietà. Non tutto può essere bello: i prezzi sono proibitivi, per raggiungere un livello di mancata sobrietà che permetta di reggere questo degrado servono tasche gonfie, e questo aumenta la depressione nata dal trovarsi in quel luogo, in un circolo vizioso che si autoalimenta.

Che fare ora? Il giro per le bancarelle ! Una sfilata sfocata di oggetti inutili, improbabili, scadenti, privi di interesse. Che però per far passare il tempo diventano attraenti, motivo di dibattito, e incredibilmente di acquisto. Ci devono essere regole di marketing psicologico esoteriche e difficili da comprendere ai non iniziati. È in questa occasione che si esplicita a pieno il parallelo con i gironi infernali. Le bancarelle sono a cerchio, e si è costretti a percorrere questo cerchio più e più volte. La massa si divide in due gruppi, uno gira in direzione opposta all’altro. Ad ogni giro i due gruppi si ingrossano aumentando i membri tra le proprie fila. Si arriva alla calca: per procedere devi sbattere contro altre persone, strofinarti, abbracciarti, sentirne il sapore e l’odore, raggiungere con loro livelli di intimità che pensavi preclusi dal comune senso del pudore. Senza accorgertene arrivi al punto di essere trascinato dalla folla senza sapere la direzione, abbandonato a te stesso ed alla volontà generale, privo della speranza di poterne uscire mai, rassegnato alla vita che ti è stata data.

Ma la massa acefala ha in realtà un obiettivo, e ti trovi trasportato in un luogo al di fuori del Circuito. Siamo tutti radunati nello spiazzo dove si svolge la rappresentazione che dà significato all’avvenimento. Impossibile vederla, troppo lontani e coperti da sagome; impossibile allontanarsi, troppo in mezzo alla materia umana per riuscire ad uscire. Bisogna subire l’entusiasmo passivo per il rito che si svolge uguale tutti gli anni, si pazienta, si spera che sia l’ultima espiazione.

E lo è. Incolonnati si fa ritorno alla macchina, incolonnati si esce dal parcheggio, incolonnati si percorre la strada. Ma questa volta è diverso, ci si sta liberando dalla cappa di stregoneria che aleggiava sulla festa, si riprende contatto con la realtà svegliandosi gradualmente dall’incubo; si ha la consapevolezza che quest’ultima coda potrà portarti a rivedere la luce. Finalmente è finita.

Arrivederci all’anno prossimo.

corsa agonia

Ho sempre ritenuto la corsa fine a se stessa come un abominio contro natura. L’uomo non è fatto per correre, compie un movimento non naturale, che richiede adattamenti, fatica, dolori, sofferenza senza divertimento.

Mi hanno proposto varie volte di andare a correre, ma ho sempre rifiutato sdegnato e sprezzante, anzi deridevo chi lo faceva. Fatica inutile quando puoi usare la bicicletta, una noia mortale, mancanza di fiato per chiacchierare, gente sgraziata per strada e ingobbita dal travaglio.

Inoltre l’immagine fornita in TV dalle gare podistiche non è vincente: atleti magri magri, rinsecchiti e privi di muscoli, col volto scavato ed emaciato. Io non volevo essere così, io volevo essere Cristiano Ronaldo.

Poi le sfortune della vita ti portano a fare cose che non avresti mai voluto intraprendere. Mi hanno obbligato a correre nel corso di una riabilitazione post operatoria al ginocchio. Per convincermi mi hanno detto: è ottimo per stimolare la propriocettività delle articolazioni rimaste ferme, mette in moto ed allena pressoché tutti i muscoli del corpo, inoltre c’è un grande consumo calorico e può aiutarti a dimagrire, visto che sei mostruosamente sovrappeso, e vergognati.

Ho provato.

La partenza è traumatica, il corpo ti aggredisce urlandoti in faccia: “cosa stai facendo? Ti sembra il caso? Non potevi stare seduto sul divano a leggere il giornale e a cazzeggiare su Facebook come tutte le mattine? Va bè, ormai hai fatto la cazzata, beccati il male alle gambe e alle ginocchia”.

Dopo 10 minuti ci si rende conto che il trauma non è stato un episodio acuto, ma si cronicizzerà per tutta la durata dell’esercizio trasformandolo in un’agonia. Si ribellano i polmoni, che ti fanno respirare come durante una crisi d’asma, si irrigidisce ogni muscolo del corpo, sopratutto la schiena, consentendoti di correre con lo stile di Quasimodo, ti fanno male anche le braccia, e non capisci il perché, ma lo accetti, ti hanno detto di farlo. E io non vorrei mai deludere i fisioterapisti, voglio sempre stare simpatico a tutti.

Dopo 20 minuti si entra in profonde meditazioni del tipo: “che sport di merda, è proprio da coglioni. Questa è l’ultima volta che lo faccio, giuro. Ma come si fa a perdere del tempo così, nel tempo che ho corso se fossi stato a casa a studiare mi sarei già laureato. Ho buttato la giornata… Sono disidratato, ho fame, fra un po’ svengo, non ho nemmeno il cellulare, speriamo che qualcuno si accorga di me e mi porti a casa… No, adesso mi fermo e torno indietro, a casa, camminando… E il fisioterapista? No dai, vado avanti un altro po’ e se il cuore continua a farmi male e a battere in modo sincopato mi fermo e cammino… Facciamo che provo a finire questa quest per bene e poi non corro mai più”.

Al 25simo minuto cominciano le allucinazioni, anche perché correre a mezzogiorno ad Agosto non è stata una saggia scelta; non del tutto, c’è il pro di una fantastica abbronzatura da ciclista su viso, collo e avambracci.  Il sole brucia come all’equatore, anche se ci sono 27 gradi, e ti parla. Ha un ghigno maligno, ti offende come un sergente Hartman e tu speri soltanto che una nuvola lo sopprima. L’asfalto si tinge di rosso, vedi tutto a macchie, ti sembra che le persone al tuo passaggio ti deridano ma provino anche un pizzico di pietà. Parli con te stesso in modo sconnesso, rivivi la tua vita istante per istante, ma ad un certo punto ti rendi conto che è quella di un altro, forse un’esistenza precedente? La presenza di draghi e fate fa propendere per il si.

Ormai sei una maschera di sudore, che ti entra negli occhi, te li fa bruciare. Provi ad asciugarteli con la maglia, ma anche quella è piena di sudore, attaccata al corpo come con lo scotch, e anche i pantaloncini sono in condizioni pietose: sembri reduce da un tuffo in piscina vestito.

Alla mezzora il miracolo, il paradiso promesso da tutti i runner con cui ti sei consultato: arriva la botta di endorfina. Corri ormai come Igor di Frankenstein Jr, sei l’immagine della sofferenza e della pietà, potrebbero usarti in un documentario che parla dei mali del mondo; ma non te ne importa nulla. Il tuo corpo è altro da te, il dolore è esterno, lo percepisci soltanto in una sorta di empatia, ma tu stai bene e sei in pace con te stesso. La luce è tenue, ti accarezza dolcemente, la natura fiorisce, il tuo orribile paesino assume le sembianze di un eden; col senno di poi puoi dire di aver vissuto una Near Death Experience.

In queste condizioni arrivi finalmente in un luogo che dopo alcuni secondi riconosci come casa tua, fai fatica a fermarti e a tornare al passo di camminata perché ormai le gambe vanno per conto loro, tiri il fiato e ti accorgi che in realtà non c’è più.

È il momento dello stretching, e nelle condizioni in cui sei ti senti uno yogi in cima all’Himalaya; purtroppo non apprendi nessuna verità superiore, ma ti arriva addosso tutta la stanchezza. Fai la doccia, ti fai schifo per quanto sei sudato mentre ti spogli, e sei pronto per continuare la giornata alla grande.

Bilancio: la giornata è finita perché sei troppo stanco per fare qualsiasi attività fisica o intellettuale; ti fanno un male cane le ginocchia, tanto che sedersi ed alzarsi è un’impresa, e finalmente capisci cosa provava tua nonna con artriti ed artrosi. I muscoli delle gambe sono dilaniati, come se te li avesse presi a morsi una muta di cani ( e forse è successo durante la corsa, ma non puoi ricordartelo, eri già nel mondo dei funghi). Non hai voglia di fare nulla, solo di bere e di agonizzare sdraiato su una qualsiasi superficie priva di chiodi.

Ma quando recuperi quella minima lucidità che ti permette di fare due calcoli, scopri che hai consumato quasi 900 calorie, e che la sera a cena puoi sfondarti di cibo senza farti ribrezzo; se addirittura sei in compagnia puoi bullarti e rinfacciarlo agli altri: “io oggi ho corso 10 km, posso mangiare quello che mi pare, cazzo me ne frega, al massimo domani torno a correre”.

Ed in effetti ci io ci sono tornato. L’autolesionismo non conosce confini.

morte di un VIP

Quando muore un personaggio pubblico è una festa. Se lo fa di notte o di prima mattina ancora di più.

Ti svegli e guardi le notizie sullo smartphone, leggi del decesso e sale l’eccitazione. Subito dai un’occhiata a Facebook per studiare lo stato dell’arte, quanti ne sono già a conoscenza e che tipi di commento sono apparsi nelle varie cerchie di amici.

A questo punto è il tuo turno, ed hai una serie di opzioni per agire, per stabilire che immagine di te vuoi dare, per aprire la caccia ai like.

  1. Ancora pochi (o nessuno, quasi impossibile) lo sanno: cerchi fonti autorevoli per verificare che non sia la solita gag in stile “è morto Renzo Arbore” nella quale sei già caduto più volte, con annessa figura vergognosa; quando sei sicuro condividi un link da un sito affidabile accompagnato da poche parole di cordoglio, del tipo “R.I.P.” o “eri un grandissimo”. Il tuo obiettivo è smuovere le coscienze ed essere il primo riferimento da cui partiranno ad albero condivisioni e discussioni su altre bacheche.
  2. Scrivi una breve citazione da un suo libro, canzone, film, di quelle più banali e conosciute perché tutti possano capire di chi stai parlando, oppure ricordi uno dei suoi libri, titoli, personaggi più famosi perché il tuo pubblico possa dire “ah, ma è quello che ha fatto…”
  3. Ti accorgi che le banalità sono già state tutte prese allora ti distingui scrivendo: “io invece me lo ricordo per…” e riporti una delle sue opere meno note, anche se brutta ed a ragione misconosciuta, “mi ha commosso e mi ha colpito perché lì …” cercando un aspetto che denoti la tua sensibilità ed unicità, i tuoi interessi peculiari che avevi in comune con il defunto, per i quali ti mancherà.
  4. Sei in ritardo, tra mainstream ed erudizione delle altre bacheche sai già  molto del VIP e puoi distinguerti con un panegirico in suo onore stile orazione funebre; vuoi tirare le somme del lutto, fingere di essere un opinion leader e mettere la parola fine alla processione coprendo la bara con l’ultimo pugno di terra.
  5. Tu conoscevi bene, da fan,  chi è morto e spetta invece a te l’ultima parola; analizzi con cognizione la sua vita, le sue  opere e la sua personalità, meriteresti il successo nella competizione social. Ma ormai sei arrivato tardi, tutti hanno già detto la loro e nessuno ha più voglia di leggere il tuo necrologio. Puoi sentirti comunque il vincitore morale.
  6. Vuoi essere cinico per cambiare target e raccogliere i “mi piace” di chi vorrebbe farlo ma non ha il tuo coraggio: dichiari palesemente ed in modo liberatorio che non te ne frega niente e che ti aspetti di leggere frasi fatte, errori di persona e nell’attribuzione delle opere. In questo modo ti garantisci un successo sicuro ma inferiore a quello portato da un lutto commovente e ben fatto, riceverai critiche ma ti assicurerai anche una buona dose di commenti.
  7. Ti dedichi all’umorismo nero, o macabro. Fai doppi sensi sul modo in cui è morto il personaggio pubblico, sui suoi difetti ed errori in vita, su quello che non ti piaceva di lui, sulle allusioni e sui gossip che lo riguardavano. Il risultato può essere fastidioso e non compreso da tutti, rischi di oltrepassare i limiti o di scavarti una nicchia tra l’asociale ed il nerd.
  8. Ormai gli scaffali sono vuoti e devi andare sul raffinato: fai sarcasmo sul lutto, scrivi un post meta-qualcosa dove dai ad intendere ad una prima lettura la tua commozione, ma ad un secondo passaggio alcuni eletti possono percepire una critica all’ipocrisia ed alla decadenza della società social-globale che finge di soffrire per persone che non conosce e che sono vuote icone commerciali. Probabilmente sei solo come un cane o frequenti poca gente orribile.

La giornata sarà piena, occuperai il tempo a controllare le tue notifiche, a commentare le bacheche degli altri, ad autocitarti, a pensare le mot juste per farti notare all’interno del capannello funebre virtuale riunito nella piazza di Facebook fino a notte.

Come ogni festa non può durare per sempre. La mattina dopo il duro impatto con la realtà: “Oggi non è morto nessuno; mi annoio, una giornata buttata nel cesso”. Questo è il vero lutto.

il malcostume in piscina

Domenica libera, è in programma una giornata di svago in un residence dotato di due piscine ed una vasca idromassaggio. Le due piscine sono distanti e su livelli diversi, per raggiungere l’idromassaggio occorre girare attorno ad una di esse e salire dei gradini.

Essendo una domenica d’agosto prevedo che ci sia molta gente, ma non tanta da occupare completamente lo spazio vitale intorno alle vasche.

L’appartamento di fronte al nostro solitamente è vuoto, è sempre stato in vendita da quando ho memoria. All’arrivo la prima sorpresa: le finestre sono aperte, lo hanno venduto e c’è qualcuno dentro. La seconda sorpresa: i parcheggi sono riservati e nominali, ma c’è un’enorme vettura, mai vista, che ne occupa abusivamente uno. La macchina è un incrocio tra una monovolume ed un tir, è in grado di contenere, da verifica empirica, 8 persone, 8 biciclette, l’arredamento di una villetta. Le sue dimensioni debordanti occupano l’area di parcheggio ogni oltre immaginabile fastidio.

Scopro presto con disappunto che gli occupanti della vettura sono anche gli occupanti dell’appartamento di fianco al mio: sono un nonno, una nonna, una coppia di mezz’età e un numero imprecisato di bambini tutti uguali, c’è pure un cane.  Dalla targa so che sono tedeschi, immagino siano disciplinati e silenziosi, mi consolo così.

Con il passare delle ore mi rendo però conto che la famiglia tedesca è l’equivalente di una qualsiasi famiglia patriarcale di italiani in vacanza: urla belluine in linguaggio gutturale, inseguimenti, oggetti ovunque, partite di pallone nei corridoi agli orari più improbabili. Sono rassegnato; ma il resto del parcheggio è vuoto, potrò trovare conforto in un qualche angolo isolato del complesso.

Ci sono ormai 30 gradi, sono le 17, decido che è l’ora di fare il bagno. Studiando i movimenti dalla terrazza ricostruisco una mia mappa mentale delle forze in campo ed escludo la piscina in basso perché già occupata dal circo tedesco accampato di fianco alla mia abitazione. Mi dirigo alla piscina in alto, vedo in lontananza dei teli appesi ma penso che con un po’ di coraggio riuscirò a condividere lo specchio d’acqua.

Quando arrivo scopro con disgusto che anche questa piscina è militarmente occupata da persone di cui ignoravo l’esistenza, non ci sono segni materiali della loro presenza all’interno del residence. Giungo alla conclusione che siano presenze metafisiche legate ad una allegoria delle vacanze agostane, o manichini di una performance live messi a posta per un oscuro motivo.

La convinzione si rafforza quando noto che sono tutti immobili, dislocati geometricamente in modo da impedire il passaggio verso l’altro lato e la gradinata che conduce all’idromassaggio. Non si parlano, non si guardano, quelli in acqua galleggiano inespressivi e rassegnati, quegli altri stanno al sole con un pessimismo che fa invidia a Montale. Provo a salutarli, non rispondono. Dalle loro età credo siano un nucleo familiare, in tal caso la rappresentazione plastica della crisi irrecuperabile della famiglia borghese.

Va bene, faccio lo slalom tra queste anime morte e salgo i gradini. Ennesimo colpo di scena: sdraiata su questi ultimi c’è una coppia intenta ad abbronzarsi che non mi considera e che devo calpestare per poter proseguire. Ho raggiunto l’invisibilità, o forse sono morto, meglio ancora sono in una assurda dimensione parallela con nuove consuetudini sociali.

Riesco a rilassarmi nell’idromassaggio, non succede null’altro di strano, al ritorno verso il mio appartamento ritrovo tutto come era all’andata, e io continuo ad essere invisibile.

I tedeschi persistono a festeggiare il loro capodanno pagano ad Agosto con grida, botti e spari, io scrivo questo post e spero di risvegliarmi domattina in una realtà plausibile, o almeno decorosa.