Il sangue di Kent Brantly può salvare dall'ebola.

Lo scenario è ideale per un messia: per il mondo si prospettano tempi bui; morte, distruzione, catastrofe, tutto sfumato seppia. Il male prospera sia all’interno che all’esterno della Fortezza Occidente.

Dentro le mura imperversa la crisi economica e sociale, da tempo non si viveva una situazione del genere. Dopo gli sconvolgimenti dell’ultima guerra si era diffuso il benessere a macchia d’olio, niente sembrava potesse rovinare questa situazione idilliaca, il futuro non era minaccioso ma prometteva ancora progresso e felicità. Invece all’improvviso si è rotto qualcosa, il lavoro è venuto a mancare, di conseguenza i soldi per i consumi e la speranza per sé stessi e per i propri figli. I notabili della Cittadella si distaccano sempre di più dal volgo, si separano dal resto della società forti delle loro ricchezze, che aumentano esponenzialmente rispetto a quelle dei loro sottoposti. L’armonia è un lontano ricordo, ci si divide in fazioni e si lotta l’un contro l’altro, pur avendo un comune nemico: la Casta.

All’esterno crescono e prendono vigore due pericoli di tipo diverso.

Da una parte i barbari tagliagola, che fanno mattanza dei cittadini avventuratisi fuori dalle mura, e che minacciano di conquistare la Fortezza spinti dal loro Dio. Una minaccia nata in terre  produttrici di risorse fondamentali  per il funzionamento della vita economica della Città, un tempo controllate direttamente o attraverso collaboratori autoctoni, ma ora lasciate a loro stesse e degenerate in preda a manie revansciste.

Dall’altra un virus misterioso proveniente dal cuore delle foreste africane, passato all’uomo, per sortilegio, dalle scimmie e dai pipistrelli. Una malattia terribile e truculenta, che annienta il corpo dall’interno, lo piaga e lo fa scoppiare in una enorme bolla di sangue. Inizialmente non faceva paura, era corredo esotico di racconti su popolazioni lontane e mondi sconosciuti, ma poi l’esplosione di un’epidemia spaventosa ed i contatti sempre più intensi tra centro e periferia della contea l’hanno portata fino alle porte della Fortezza.

Per nascondere la povertà interna, e per proteggersi dai pericoli provenienti dall’esterno,  i governanti della Cittadella hanno deciso di sollevare i ponti levatoi e di intensificare i controlli verso chiunque bussasse alla porta. Vengono accolti con tutti gli onori i principi orientali e la ricca corte dell’imperatore rosso di Cina, portatori della liquidità necessaria ad un disidratato Occidente per poter sopravvivere. Tutti gli altri, le persone comuni, vengono sottoposte a rigidi controlli: sulla provenienza, sulla religione professata, sui loro ultimi spostamenti, per appurare che non siano affiliati ai barbari; sulla temperatura corporea, sulle condizioni del sangue e dell’apparato digerente, per accertare che non siano untori, bombe umane scagliate all’interno della Città.

Quello che era il pericolo che aveva avuto maggiore presa sul popolo, la paura dei barbari, è ancora confinato al di fuori delle mura, anche se le voci corrono e se ne sono prodotte di attentati probabili o sventati alle piazze più importanti della Città, corroborate dalle minacce di presa della Cattedrale diffuse dai tagliateste attraverso i mezzi di comunicazione. Invece ha già fatto breccia e oltrepassato le difese dell’Occidente la terribile malattia.

A importarla è stato Kent Brantly, medico in missione nelle terre sperdute d’oltremare e contagiato dal virus. Lo si è voluto curare all’interno dei bastioni, e questo ha provocato una brusca reazione nel popolo: chi sosteneva che lo si dovesse lasciar morire in quelle lande lontane, chi che non avrebbe mai dovuto uscire dalla Città per curare popolazioni inutili, povere e ignoranti, che quella era la sua giusta punizione e che la solidarietà e la compassione sono ormai disvalori non affini al verbo della produttività.

Deriso, vilipeso e bistrattato il povero missionario è riuscito però a guarire. E qui il suo secondo peccato grave: la società occidentale aveva ormai da tempo nella sua maggioranza abbandonato superstizioni ed idee metafisiche per tributare fiducia incondizionata alla scienza ed al progresso, mentre lui presentandosi alla folla all’uscita dal Lazzaretto ha ringraziato Dio per averlo salvato. La reazione è stata violenta, “ma come, noi lo salviamo grazie alla nostra tecnica e al nostro sapere, e lui ringrazia qualcuno che non esiste e che quindi non può aver fatto nulla per lui”. Si è preferito farlo finire al più presto nel dimenticatoio. Di questa esperienza rimaneva la certezza che la progredita civiltà della Fortezza poteva tranquillamente guarire gli ammalati e sconfiggere il virus, pericoloso solo tra le povere genti delle terre lontane.

Purtroppo sono arrivati altri contagiati, e sono cominciate le morti. Le cure promesse dalla cultura cittadina non sono ancora pronte per essere utilizzate in vasta scala, e soprattutto non sembrano funzionare nella totalità dei casi. Le conseguenze non si fanno attendere: il popolo precipita nell’irrazionalità, si diffonde il terrore e la caccia all’untore, si evitano i contatti e la frequentazione di luoghi affollati, si sospetta di chiunque. Un clima millenarista da fine del mondo, la paura dell’estinzione, la rassegnazione ad una morte certa ed inevitabile, il fatalismo.

Nel momento più buio, quando tutto sembra perduto, si illumina una speranza. Si scopre che forse il plasma del sangue delle persone guarite può aiutare gli ammalati, le prime evidenze lo confermano. Di colpo il povero medico Kent Brantly passa da paria emarginato a messia portatore della salvezza al proprio popolo. Maltrattato, respinto, umiliato, si prende la propria rivincita dalla croce e con il proprio sangue, che ha sconfitto il male, può redimere coloro che lo hanno disconosciuto.

“Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati”. Il destino della Fortezza passa per il corpo del giovane medico, svuotato dal plasma come un pozzo dal petrolio.

 

 

il perché delle decapitazioni

I Lego sono indubbiamente un ottimo gioco, formativo ed educativo. Affascina anche gli adulti, stimola la creatività; con il passare del tempo e la crescita delle espansioni ha permesso ai bambini persino una prima infarinatura nel campo della robotica e della programmazione.

Per la diffusione che hanno avuto, per l’influenza sulla società, per il numero di persone che ci ha giocato, per il tempo che ci ha giocato, i Lego sono indubbiamente un potente simbolo, nonché prodotto della cultura occidentale.

Sappiamo fin troppo bene come i terroristi musulmani, ed in particolare i nuovi fondamentalisti dell’IS, pur predicando un ritorno alle origini, ai tempi del Profeta, e rifiutando la modernità, si siano impossessati dei più moderni strumenti di comunicazione e dei simboli della contemporaneità occidentale.

Ne è esempio il sapiente uso dei video, dei messaggi via Twitter, delle finte analisi giornalistiche, dei trailer, delle tuniche arancioni usate per vestire gli ostaggi.  L’inizio della contaminazione non è stato dei più promettenti, si veda la foto di Osama Bin Laden con Bert dei Muppets ,

Influenza dei Muppet sulla cultura occidentale

ma indubbiamente la situazione è poi migliorata e gli influssi della nostra cultura sono sempre più evidenti, anche a causa del grande numero di europei di seconda generazione che fanno ritorno in Medio Oriente per combattere una battaglia che sentono loro.

Come è possibile quindi che non ci sia tra queste influenze anche quella dei Lego? Già dalle pose in cui si fanno fotografare i combattenti, l’ascendente è evidente: tengono infatti il petto in fuori, come gli omini gialli, e le braccia dritte con incastrate le armi nelle mani posizionate ad uncino.

Soldati dell'IS tengono le armi come i Lego

 

Purtroppo una delle caratteristiche più note degli omini della Lego è la possibilità di staccare loro la testa con estrema facilità. Questa si sfila agevolmente dal collo, e mantiene sul volto la stessa espressione dell’omino da vivo.

Sul piano educativo e dei significati la facilità di decapitazione toglie valore alla vita umana, il corpo diventa un oggetto scomponibile, privo di un’identità a tutto tondo ma plasmabile e ricomponibile attraverso i suoi pezzi. Si desensibilizza il singolo nei confronti del suo prossimo; quest’ultimo è un gioco usa e getta, non una persona con sentimenti ed una storia alle spalle che lo rende un individuo, prezioso in sé  ed in quanto diverso da tutti gli altri.

È facile vedere il nesso con l’uso smodato che i boia dell’IS fanno della decapitazione. Non si limitano a sgozzare gli ostaggi, ma staccano loro la testa e la pongono in bella mostra, rendendo ben visibile l’espressione che rimane sul volto delle vittime; una sinistra somiglianza ad una cesta piena di teste degli omini della Lego.

Va ricordato che la Lego è un’azienda danese, e non è la prima volta che la Danimarca ci crea guai nel conflitto culturale con l’estremismo islamico; alcuni anni fa le vignette satiriche su Maometto pubblicate da un quotidiano di quella nazione crearono una notevole dose di grattacapi e manifestazioni di dissenso verso tutto ciò che era espressione dell’invadente civiltà occidentale.

Penso sarebbe un bene boicottare l’acquisto dei prodotti dell’azienda danese, almeno fino a quando non si deciderà a saldare la testa degli omini al corpo. Questo sarebbe però solo un primo passo, perché i loro giochi nascondono altri pericoli: non manca molto, credo, a che i terroristi comincino a staccare le gambe dal busto delle vittime. E temo che se un giorno invadessero le nostre terre non esiterebbero a decostruire i nostri edifici scomponendoli in mattoni, per poi rimontarli, a causa della loro limitata fantasia, in case e moschee cubiche, forse addirittura prive di finestre e di tetto.

Sono forti, sono cattivi, sono determinati, sono pronti a tutto.

Così si definiscono i 30 rappresentanti di governi ed istituzioni internazionali riuniti ieri a Parigi. Il loro obiettivo è sconfiggere l’IS unendo tutte le loro abilità. Per rendere il cast più vendibile in tutti i mercati del mondo ed attirare più pubblico sono state coinvolte anche le personalità del mondo arabo; i musulmani buoni contro quelli cattivi.

Purtroppo non scenderanno in campo direttamente loro, vestiti da guerrieri, armati fino ai denti, eroici nello sconfiggere i nemici tra esplosioni spettacolari, belle donne, e scene di lotta in slow motion. Il loro compito sarà mettere a disposizione di un’azione coordinata armi, veicoli, soldi, aiuti umanitari.

Dopo l’entusiasmo dell’annuncio e del tutti per uno e uno per tutti, comincia la ritirata;  l’appoggio è sincero ma i distinguo fioccano. Chi fornisce solo 6 bombardieri, chi arma i peshmerga, chi aiuta la popolazione civile perché ripudia la guerra, chi dà pieno sostegno a parole ma quel giorno ha un impegno e proprio non può andare. In genere nessuno vuole mettere piede sul terreno, ma bombardare a distanza, lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

A fare il lavoro sporco sono chiamati appunto gli arabi. Tocca a loro mettere in piedi un esercito di terra che combatta i ribelli dell’IS e impedisca loro l’avanzata in Iraq ed in Siria. C’è un problema: gli stati arabi appartengono tutti a correnti religiose ed etnie diverse, ognuno ha i propri interessi e le proprie alleanze, che gli occidentali faticano a capire, ed è difficilissimo che riescano ad accordarsi e coordinarsi tra loro, soprattutto in tempi brevi. E un’ ulteriore difficoltà: tra questi stati arabi alcuni sono stati (e forse sono ancora) finanziatori diretti dell’IS, usata come arma di ricatto o per infastidire gli stati rivali nello scacchiere dell’area mediorientale e della penisola arabica.

Tra l’inettitudine europea, la scarsa voglia di Obama e dell’Occidente di impelagarsi in una nuova guerra dopo aver ritirato le truppe da Iraq ed Afghanistan e le rivalità interne al mondo arabo, la decisione per un’azione collettiva è lontana, e la risoluzione del problema IS ancora di più.

Rimane il pathos straordinario creato da questi superuomini con il loro grintoso annuncio, Abu Bakr Al-Baghdadi sarà terrorizzato.

Putin e Renzi si affrontano sulla questione ucraina

Renzi: “il mio piano in 1000 giorni per scardinare il sistema”; Putin:”prendo Kiev in due settimane”.

Le due dichiarazioni compaiono una di fianco all’altra nelle prime pagine dei giornali. Gli obiettivi con tutta evidenza contrastano sia per la potenza evocata che per i termini temporali. Renzi, in quanto premier della nazione che ha la presidenza del semestre europeo, si trova, anche se solo formalmente, a dover fronteggiare in prima persona la minaccia di Putin verso l’occidente.

Le strategie comunicative e le situazioni in cui si trovano i due contendenti sono diametralmente opposte.

Renzi è nella situazione di dover rilanciare un paese in crisi: economica, sociale, culturale. Putin, dopo aver stabilizzato la situazione politica interna cerca di cementare l’opinione pubblica e di zittire le voci di dissenso interne ricompattando i governati intorno al nazionalismo, alla minaccia di attacchi esterni e alla grandeur imperialistica.

Reduce da una stagione di marketing politico berlusconiano fatta di negazione del reale in difesa dell’esistente, Renzi intercetta il desiderio di cambiamento radicale emerso nella politica italiana e se ne fa portavoce. Si pone sempre in prima persona portando proposte forti, scommesse quasi irrealizzabili, promesse di stravolgimenti che fanno presa sulla stanchezza di una popolazione quasi esausta. Procede per slogan semplici, li aggiorna ogni due o tre mesi, pone limiti temporali e tabelle di marcia, costruisce siti per monitorare e dare conto del progresso delle riforme da lui volute e concretizzate. In realtà molti dei progetti annunciati vengono moderati, abbandonati o rivisti a causa dei necessari compromessi con le altri parti politiche e con la realtà dei fatti; il continuo rilancio di nuovi slogan e progetti serve appunto a coprire la possibile delusione per la non piena realizzazione di quelli passati.

Putin, nell’eterno ritorno che è la storia russa, ripercorre le tappe che furono dell’Unione Sovietica. Il crollo di regime seguito alla caduta del muro di Berlino ha precipitato la Russia nella crisi politica ed economica, con cessione di territori appartenenti alla federazione e perdita di influenza sulle “democrazie popolari”dell’Europa Orientale. Putin, che dell’ URSS è figlio in quanto ex agente KGB, è riuscito a porre un freno all’anarchia economica riportando sotto il controllo diretto o indiretto dello stato tutte le principali attività ed industrie, soprattutto quelle legate alle materie prime. Ha ridato stabilità politica ristabilendo in modo “velato” il partito unico, permettendo cioè la presenza sulla scena politica del proprio partito maggioritario e di partiti alleati o comunque accondiscendenti alla linea di governo, reprimendo in modo anche violento l’opposizione vera. Ha creato consenso e attaccamento alla propria figura proponendosi come leader forte e paladino di un nuovo nazionalismo russo che mira a recuperare alla nazione e a proteggere tutti i russi al di fuori dei confini nazionali.

Nella sua azione propagandistica, al contrario di Renzi, non si pone in prima persona negli annunci più delicati o nella diffusione delle idee più estreme (sulla censura, sull’omofobia, sulle provocazioni verso l’esterno), ma fa lanciare ballon d’essai a personaggi minori del proprio entorurage, o governo, e valuta le reazioni della popolazione. Quando questa è negativa provvede a riprendere pubblicamente il sottoposto fino ad eliminarlo dalla scena politica ma intanto ottiene l’effetto di aver instillato nell’opinione pubblica la nuova idea lasciando che questa si abitui e piano piano la accetti.

La ricerca del consenso di Putin  non si basa sul continuo rilancio di promesse, ma sulla dimostrazione di forza, sul desiderio della nazione di tornare una potenza, a livello dell’impero zarista o dell’URSS. Per fare questo ha recuperato due leit motiv della storia russa: l’assedio delle potenze occidentali, la necessità di una zona di protezione, di una sorta di cuscinetto, che tuteli la sicurezza della Russia rispetto ai pericoli provenienti da Ovest.

L’Ucraina, la Bielorussia, gli stati baltici, in quanto popolati in gran parte da russi e storicamente appartenenti all’impero, devono rientrare secondo l’ottica putiniana di potenza a pieno diritto sotto la proprietà o almeno l’influenza della Russia; la ferma opposizione delle nazioni occidentali raggruppate nella NATO, la loro rivalsa attraverso il boicottaggio economico, dimostrano in modo evidente le ragioni della Russia, il timore che questa provoca, e quindi il riconquistato ruolo di potenza internazionale.

L’assedio dei soldati ucraini, finanziati dalle nazioni occidentali, alle città dell’est dell’Ucraina a maggioranza russa, nel revival storico riportano alla vita gli assedi e le invasioni subite dall’URSS da parte dei nazisti nel corso della seconda guerra mondiale. Per questo gli ucraini vengono definiti nazisti, e la guerra non è più civile, come dopo la prima guerra mondiale, ma partigiana, come durante la seconda.

Che questo parallelo storico sia reale lo dimostrano le appartenenze dei volontari sui due fronti della guerra ucraina. L’esercito ucraino è coadiuvato da formazioni paramilitari di estrema destra e da militanti post-fascisti di tutta Europa, tra i quali alcuni italiani aderenti a Casa Pound. Sull’altro fronte si trovano volontari anti-fascisti , giunti dai centri sociali di sinistra per combattere i nazisti sull’altro fronte, e giovani nostalgici sovietici con i tatuaggi di Lenin e Stalin, che si propongono di difendere il popolo russo ed i civili filorussi dall’invasione violenta delle potenze occidentali.

Si confrontano, simbolicamente, due modi di fare politica diversi per obiettivi e per stile: la politica 2.0 di Renzi, nuova e contemporanea, fatta di immagine, di comunicazione, di pubblicità, di costruzione di un mondo virtuale come promessa di un futuro migliore, la cui utopia è negata dal preciso e dettagliato programma di riforme; la politica tradizionale ed otto/novecentesca di Putin, costruita sull’idea di nazione, di impero, di zone di influenza, di conquista e di geopolitica, di mentalità cicliche e ricorrenti che caratterizzano lo spirito di un popolo.

Obama ha definito l’impegno contro lo Stato Islamico una battaglia contro “questa ideologia nichilista”. Credo che la questione sia da ribaltare.

In questo momento l’ISIS attira, preoccupa e fa parlare di sé perché è una risposta di senso. Ha un’organizzazione, ha dei valori, fornisce un’ideologia e le relative certezze, è radicale, è violenta e per questo affascinante.

Con il Novecento sono morte le ideologie; ma non è morto il bisogno di un orizzonte di senso, di un sistema di regole e ideali che fornisca una direzione ritenuta giusta e coerente che possa fungere da guida nella formazione dell’individuo.

In Occidente cosa è rimasto per soddisfare questa esigenza? Un surrogato omeopatico composto da: fatti un bel curriculum, cerca un lavoro prestigioso, in ogni caso fai in modo di avere tanti soldi, appari bello e di successo. Dal 2008, con l’inizio della crisi economica, anche questi residui valori sono evaporati; l’unico scenario per chi si affaccia alla scena del mondo è una sopravvivenza priva di gratificazioni, con nessuna prospettiva futura per cui valga la pena sacrificarsi.

Certo la ribellione c’è: Occupy Wall Street e i movimenti europei analoghi che protestano contro l’1% più ricco. Ma sono fuochi di paglia, fanno molto rumore per poi spegnersi dopo poco in un nulla di fatto. Ricordano in questo i movimenti del ’68, e credo che il fallimento sia dovuto alle stesse ragioni: non sono strutturati, criticano l’esistente ma non propongono un modello alternativo; insomma non hanno un’idea forte alle spalle che consenta di passare dalla fase destruens a quella construens.

L’ISIS offre tutto ciò che serve a chi rifiuta il modello unico ora dominante: ci sono le certezze di un’ideologia forte, strutturata, elaborata, che fornisce sicurezza, ideali, ed un modello di mondo futuro, contrapposto all’attuale, tale da giustificare gli sforzi e le rinunce del presente. Ha un’organizzazione, aderendovi si può percepire il senso di appartenenza e di identificazione che manca nella società liquida e parcellizzata del nuovo millennio. La violenza e la radicalità delle sue azioni esemplificano il modello noi vs loro tipico delle culture di ribellione giovanile: è efferata, ci sono sangue, morti e stupri, insomma un’eccezionalità che infrange la routine ed il buonismo quotidiani.

La sua immagine è potente: i membri sono vestiti di nero, hanno sempre le armi in mano, sanno rappresentarsi in immagini di forza e vittoriose; è moderna: c’è un ampio e sapiente uso delle tecnologie e dei mezzi di comunicazione social, come dimostra il loro ultimo ricatto al presidente degli Stati Uniti (che ricorda quello posto al primo ministro britannico nella serie TV Black Mirror: accoppiarsi con una scrofa per non far uccidere la principessa rapita).

Per riprendere il paragone con Il Novecento e le sue ideologie L’ISIS fornisce ai giovani di oggi l’occasione per soddisfare l’esigenza del gesto eroico, del rito di passaggio della guerra che rende definitivamente uomini: un’esigenza che aveva fatto accogliere entusiasticamente il conflitto bellico con un’esplosione di volontarismo in entrambi le guerre mondiali. La Siria/Iraq di questi giorni è una sorta di Spagna del ’36, una guerra civile che si trasforma in conflitto globale ed in scontro tra due diverse ideologie.

Con questa chiave interpretativa la risposta armata è utile solo nell’immediato, cura infatti i sintomi ma non la malattia. La risposta più efficace sarebbe un’elaborazione solida e coerente di nuove dottrine politiche e nuovi modelli di sviluppo socio/economici, che non lascino spazio all’integralismo ed al ritorno di ideologie totalizzanti, infilatisi nelle crepe e nei vuoti del panorama culturale contemporaneo.

Con l’entrata nel XXI secolo hanno cominciato ciclicamente a proporsi ondate di allarmismo per il diffondersi epidemico di malattie che avrebbero clamorosamente ridotto il totale della popolazione mondiale.ebola_suit

Frutto della globalizzazione, che permette rapidi spostamenti e riduce le distanze tra le varie parti del mondo, per cui ormai ci riguarda direttamente quello che succede anche molto lontano da noi, e della crescente influenza e diversificazione dei media, sono nate e si sono diffuse psicosi che come tormentoni occupavano ed occupano gran parte dello spazio informativo per poi sparire nel dimenticatoio una volta “commercialmente” bruciate.

Tutto è cominciato nel 2003 con la SARS,  influenza potenziata che si trasmetteva attraverso le vie aeree e poteva portare facilmente alla morte: per alcuni mesi i giornali trasmettevano il bollettino di guerra della inarrestabile avanzata del fronte del contagio, e chiamavano la popolazione alla battaglia fatta di mascherine, continua pulizia delle mani, evitamento dei luoghi chiusi affollati e del contatto diretto con le persone.

Nel 2005 fu il turno dell’influenza aviaria, recrudescenza della SARS che si diffondeva tra i volatili, passava da questi all’uomo ma fortunatamente non sviluppò un ceppo in grado di trasmettersi da uomo a uomo. Questa volta la psicosi aveva trasformato la società occidentale  in un enorme set de “Gli Uccelli” di Hitchcock: si scappava dai piccioni come da serpenti velenosi, si cominciava a tremare quando si sentivano dei suoni provenire dagli alberi, dai tralicci, dai portici, e si evitava la carne di pollo come se fosse cianuro.

Con il 2009 fu il turno dell’influenza suina, sviluppatasi in Messico e penetrata negli Stati Uniti, si sovrappose in Europa all’influenza stagionale. Nei luoghi pubblici si diffusero cartelli con le istruzioni per evitare il contagio e si pregavano le persone che presentavano i sintomi anche di un semplice raffreddore di starsene a casa per il bene della collettività. Si trovò anche l’antidoto con un vaccino sviluppato in tutta fretta, che venne a sua volta presentato come molto pericoloso; il singolo fu posto davanti ad una scelta che si configurava come una partita alla roulette russa: rischiare di ammalarsi di un morbo mortale o prevenirlo con un farmaco dalle conseguenze imprevedibili.

L’episodio più ridicolo, nel 2011,  coinvolse invece un batterio, quello dell’Escherichia coli, ed un improbabile veicolo di trasmissione, il cetriolo. Nonostante tutti i tentativi di creare un allarme smodato per l’ortaggio killer, il suo scarso successo alimentare non creò una apprensione che andasse oltre il chiedere di togliere la fettina verde dall’hamburger nei fast food, cosa che accadeva già prima per la sua caratteristica sgradevolezza. D’altronde il focolaio fu in Germania, e si sa che i tedeschi non hanno un grande talento per la fiction di genere, tanto che nemmeno Soderbergh è riuscito a fare un film su questa piaga.

Veniamo ai giorni nostri e all’allarme Ebola.  La questione è sicuramente seria, si parla della peggiore epidemia negli ultimi 40 anni… appunto, “degli ultimi 40 anni”. La malattia esisteva anche prima e mieteva vittime, ma la paura generalizzata è oggi resa possibile dalla creazione del villaggio globale. Lo sviluppo del morbo (febbre emorragica con perdite di sangue) è sufficientemente truculento per fare colpo, il luogo di origine, l’Africa, si presta ad uno scenario di assedio stile zombie con attacchi via aria (i collegamenti aerei) e via mare (gli sbarchi) alla “fortezza” Occidente. La proclamazione  da parte dell’OMS dello stato di emergenza internazionale non invoglia all’ottimismo, ma un discreto carico lo mette l’insistenza dei mezzi di comunicazione sui termini emergenza,  contagio,  propagazione, epidemia; la spiegazione pacata e razionale di quel che sta succedendo e delle possibili conseguenze a livello mondiale è o esclusa, o accennata, o relegata ai trafiletti. Il panico non si è ancora diffuso e non ha dato chiari segni di manifestazione che non vadano oltre il trito fatalismo e la rassegnazione crepuscolare. Sicuramente è cominciata la caccia all’untore: in Sicilia i poliziotti si fingono malati per non prestare servizio di accoglienza ai migranti provenienti dalle coste africane a causa della paura del contagio; in molti criticano i volontari che non lasciano le popolazioni in emergenza al proprio destino ed anzi, aiutandole, portano il virus all’interno della fortezza. Donald Trump ad esempio ha scritto questo tweet :

Coloro che si recano nelle zone remote del mondo per aiutare il prossimo sono meravigliosi, ma devono subirne le conseguenze!

riferendosi al rimpatrio,per ricevere le cure, dei volontari americani Brantly (medico) e Writebol (missionaria).

Non resta che rimanere in attesa degli sviluppi, sperare che da un punto di vista eurocentrico si risolva tutto nella solita bolla di sapone, e che non si degeneri in episodi di isteria incontrollata e pericolosi sotto l’aspetto del razzismo, conseguenza del luogo di provenienza degli eventuali vettori di contagio.