disoccupazione: dall'utopia al dramma della società italiana

In Italia il livello della disoccupazione è arrivato al 12.6%, con una media di mille posti di lavoro bruciati al giorno nel mese di Luglio.

Ad una base di persone che sono entrate nel mondo del lavoro con un contratto a tempo indeterminato, che hanno quindi un’occupazione garantita e sicura, si aggiunge la popolazione più giovane che ha conosciuto e conosce solamente contratti a tempo determinato, a progetto e assunzioni in regime di libera professione, non garantiti e flessibili.

Il fossato che divide le due categorie, ben distinte per età, tutele e salari, è evidenziato dalla statistica del 42.7% di disoccupazione tra gli under 25: mentre le aziende cercano con tagli, chiusure, cassa integrazione di liberarsi dei primi che sono più costosi e più difficili da smaltire, con i secondi hanno vita facile e maggiore elasticità.

Come può evolvere questa situazione? Tutto il processo di meccanizzazione e di robotizzazione del lavoro (agricolo o industriale che sia) ha avuto come obiettivo e come sogno quello di liberare l’essere umano dalla fatica del lavoro fisico. Il tutto per raggiungere una società ideale dove le macchine lavorano e l’uomo può dedicarsi all’ozio ed all’attività intellettuale o “spirituale” allo scopo di migliorare se stesso e la vita nel suo complesso.

Man mano che il processo va avanti questo progetto si sta realizzando, la manodopera è sempre meno necessaria nei campi, nelle fabbriche e, con lo sviluppo dell’informatica, nel settore terziario. Ormai l’uomo non ha più necessità di prestare la propria forza fisica ricevendone in cambio un salario, ma ha ridotto i suoi compiti a manovrare e programmare le macchine e  supervisionare i processi produttivi.

Chiaramente questa diminuita necessità della presenza umana ha a sua volta limitato drasticamente l’esigenza di avere persone fisiche nei luoghi di lavoro, con una conseguente disoccupazione, che fa fatica ad essere riassorbita dai settori che richiedono ancora capacità non sostituibili dalla “macchina”.

Queste competenze riguardano le peculiari abilità manuali ed intellettive dell’uomo: l’artigianato, il design, la moda, la cultura, la programmazione, il marketing, la ricerca. Insomma attività dove non contano la riproducibilità e la velocità di esecuzione. Ma non tutti i 7 miliardi di persone che abitano la terra, e nemmeno tutti i 61 milioni di italiani hanno delle caratteristiche o abilità particolari, o delle specializzazioni che li rendano unici ed appetibili per il nuovo mercato del lavoro.

Del lavoratore volenteroso, non specializzato, che fornisce la propria indistinta e non qualificata manodopera nessuno sa più cosa farsene: nei settori dove è più conveniente far produrre all’uomo in catena di montaggio che al robot, la lotta per il posto di lavoro è sottoposta ad un’enorme pressione competitiva, sia per l’immigrazione (in Italia), sia per la presenza di paesi che offrono manodopera a bassissimo costo e spingono alla delocalizzazione.

Gli unici che hanno un mercato o un’occupazione sono dunque i consulenti, i lavoratori in proprio, i tecnici specializzati, i laureati con competenze specifiche ed utili al momento economico in cui si trovano. Per gli altri c’è la disoccupazione o l’occupazione parziale, e sarà sempre peggio.

Cosa fare di questa massa di disoccupati? Perché possano dedicarsi all’ozio ed al miglioramento di loro stessi è necessario che vengano in un qualche modo mantenuti dallo stato. Sarebbe necessario perciò un mutamento del paradigma politico verso una robusta redistribuzione del reddito che sfocia in una vigorosa socialdemocrazia o in una forma di socialismo quasi utopico. Nel caso chi si occuperebbe di guadagnare per tutta la collettività? Se si nazionalizzassero tutte le attività produttive, come dimostrano gli esempi storici, cadrebbe la spinta all’innovazione e la varietà di offerta al consumatore. Se si lasciasse l’iniziativa ai privati, con che spirito questi, ed i pochi lavoratori dipendenti, lascerebbero la gran parte  dei capitali guadagnati allo stato perché li ridistribuisca?

Un’altra soluzione è non lasciarli in ozio, ma giustificare in un qualche modo la rendita di sussistenza che andrebbero a percepire. Alcuni potrebbero essere riconvertiti al settore turistico-culturale, uno dei pochi punti di forza sfruttabili dall’Italia, ma quest’ultimo non è abbastanza vasto da assorbire la totalità della popolazione attiva. Gli altri dovrebbero keynesianamente scavare buche e ririempirle, a detrimento della produttività e di un sana competitività economica.

La terza soluzione, quella attuata per ora, è lasciarli al loro destino, sperando che riescano a sopravvivere con le rendite familiari accumulate nei decenni precedenti, e lasciare che siano carne da macello per i talk show che ne spettacolarizzano il dolore. Intanto li si stordisce con promesse di nuovi boom economici impossibili da ottenere, e di riforme  che l’attuale governo non riesce a realizzare se non in minima e ridottissima parte.

In conclusione?  Non ne ho idea, ma ritengo che la situazione non possa che peggiorare, a meno di svolte clamorose e radicali; e che, per chi come me non sa fare nulla, i tempi si faranno sempre più bui.